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Artemisia

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Muse e ninfe maliziose e seducenti; monache orgogliose e temibili; dame altere e potenti; antiche regine -Cleopatra- e peccatrici -Maddalena-; allegorie della pittura, della musica, della pace, della retorica, della fama; Betsabee al bagno; guerriere bibliche, tra le quali domina Giuditta che con meticolosa calma trancia la testa a Oloferne, alla quale si aggiungono Giaele che conficca con un martello un chiodo nella tempia di Sisara e Dalila che toglie ogni forza a Sansone. La più straordinaria tra queste donne è forse una samaritana dalla posa e dallo sguardo assolutamente scettici che discute con un Gesù che sembra in difficoltà. Ma sono tutti i maschi a subire inganno e vendetta nei dipinti di Artemisia Gentileschi.
Che cosa rovina questi uomini? L’eros? L’intelligenza? La menzogna? Certamente la corporeità, che dalle opere di Artemisia tracima col suo splendore e con la sua potenza. L’Allegoria della pittura è una coscia femminile che riempie il quadro e che si allarga a un corpo adagiato, lucido, sognante.
Cinquanta i dipinti dell’artista romana presentati in questa mostra e per la prima volta riuniti in un unico spazio, accanto a quelli del padre, dello zio e di chi con lei collaborò, Simon Vouet ad esempio, e di chi faceva parte della sua bottega, come Bernardo Cavallino. La cifra di questa mostra è senza dubbio non soltanto il valore dei documenti inediti mostrati –tra gli altri, le lettere di Artemisia e del marito Pierantonio Stiattese all’amante di lei Francesco Maria Merenghi- ma anche e soprattutto i risultati raggiunti dalla collaborazione tra specialisti di Artemisia e il poter per la prima volta avere un quadro d’insieme del percorso esistenziale e creativo dell’artista, della sua autonomia e originalità formale. E dopo la prima toccante sala in cui la voce di Artemisia/Emma Dante racconta del suo stupro in un modo semplice ma voracemente coinvolgente, si entra nel suo mondo fatto di passione, forza, determinazione e affari. Un commercio che influì sulla sua arte, determinando attraverso le committenze la scelta dei soggetti ma a volte anche lo stile. Per non parlare della ripetitività di molte tematiche, per rappresentare le quali con molta probabilità Artemisia si servì di cartoni e disegni, modificando soltanto qualche dettaglio per mantenere l’originalità di ogni opera.
E benché abbia ragione Mina Gregori -la quale nel catalogo fa ammenda di una valutazione troppo affrettata espressa anni prima su Artemisia- che ci invita a non giudicare l’artista soltanto attraverso la lente della violenza subita, si fa fatica a dimenticare la voce di Emma Dante e quel letto disfatto e quelle lettere che pendono in centinaia di copie dal soffitto.
Anche tenendo in considerazione il naturale talento dell’artista, la ripetitività figurativa e tematica di certe opere che esclude ragioni d’ispirazione ed è piuttosto legata a necessità commerciali -e persino la scelta dei contenuti dovuta alla committenza e alla moda-, sta di fatto che «gli studi hanno dimostrato che la vita condotta da Artemisia fino al matrimonio e al trasferimento a Firenze era stata molto difficile e che lo stupro agisce su questo sfondo come la testimonianza di un ambiente famigliare degradato, coercitivo e promiscuo». E ancora: «Dopo ci furono lo stupro, perpetuato con le false promesse, la grande umiliazione pubblica del processo, lo scandalo, il matrimonio combinato in fretta con un uomo indebitato con suo padre, e la partenza. In queste condizioni Artemisia aveva imparato a dipingere. Con rabbia» (Maffeis, p. 67)1. E non dimentichiamo la «tortura dello schiacciamento dei pollici cui Artemisia fu sottoposta durante il processo per attestare la veridicità delle sue accuse» (p. 65).
Gli sguardi delle donne artemisiane sono romanzi aperti, eppur ineffabili: Giuditta, Giale, Maddalena, Cleopatra, Susanna, Corisca, Lucrezia, Betsabea, Clio, Danae. Così come i volti dei ritratti e delle allegorie. E i suoi stessi autoritratti. Si veda quella Vergine che allatta il bambino, risalente al 1608-1609 –dunque prima della violenza. Un dipinto che già sorprende -nonostante la giovane età di Artemisia- per l’«icasticità realistica degna di un’istantanea di vita vissuta» (p. 152). Eppure nella prima Giuditta decapita Oloferne risalente al 1612 –dunque dopo la violenza- quanta forza si aggiunge, quanto di più dicono gli occhi e i lineamenti di Giuditta, e il dinamismo e quella luce «proveniente da sinistra» che «suscita coinvolgimento drammatico e contribuisce a fissare l’impressione di lotta e disordine suggerita dalle lenzuola disfatte» (Mann, p. 154)? La svolta esistenziale definì il confine delle violenze subite, oltre non si poteva andare, oltre c’era la rabbia dell’artista pronta a sferrare il colpo, a dimostrare «quello che sa fare una donna» (nel catalogo, Nicolaci, p. 268), come lei stessa scrisse al principe Antonio Ruffo della Scaletta.
E così ne La vergine che allatta il bambino del 1616-1618 a quella dolcezza di sguardo già visibile nella prima, si aggiunge un soffuso, chiaro, disincanto, una sicurezza matura che trapela dai lineamenti del volto e dal colore dell’incarnato. Queste donne in misura più o meno potente sono sensuali e inquietanti, ma soprattutto sono vere, di un realismo che riguarda più l’osservazione della natura umana che della natura tout court.
Questa è Artemisia, la donna, che è senza dubbio primariamente un’artista. Dipinge ciò che meglio conosce e può conoscere –il nudo femminile- superando subito il padre Orazio, al quale per secoli è stata seconda fino alla scoperta non soltanto della sua autonomia artistica ma anche della sua originalità, del suo stile che ha fatto scuola. E dipinge il nudo animandolo di una forza che è sua personale, di un carattere che si fa cromia, di una luce caravaggesca che esalta la robustezza dei dettagli e infonde al racconto un vigore senza pari.
L’allestimento di Emma Dante regala ulteriore fascino a questa “pittora” ammirata nelle corti di tutta Italia e che a Napoli trovò forse il luogo più congeniale alla sua passione, oltre che la morte. Tra fulgenti lapislazzuli, fiotti di sangue e caravaggesche lame di luce, è la carne che trionfa in Artemisia.

 

Nota

1 Roberto Contini e Francesco Solinas (a cura di), Artemisia Gentileschi, 24 Ore Cultura, Pero (Mi) 2011. Tutte le citazioni successive si riferiscono a questo catalogo con l’indicazione del relativo numero di pagina.

 

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione
Palazzo Reale – Milano
Dal 22 settembre 2011 al 29 gennaio 2012

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